Pubblichiamo con grande piacere questo bel diario composto da Veronica Cirillo, una nostra amica viaggiatrice che ci racconta le mille sfumature dell’India attraverso i suoi occhi e le sue emozioni. Vi invitiamo a mettervi comodi sul divano di casa e a partire con la fantasia in questo viaggio, attraverso il racconto della nostra viaggiatrice (che ringraziamo!). Buona lettura!!
Sono Veronica, ho 32 anni e vivo a Matera. L’università e i lavori in giro per l’Italia e l’Europa mi hanno tenuta lontana dalla mia terra con cui vi è un rapporto di amore-odio. Appena posso scappo, ho sempre voglia di conoscere nuove culture e abitudini e, quando non posso farlo fisicamente, mi abbandono tra le pagine di un libro. Oltre alla lettura e ai viaggi dedico molto tempo ad Allopera, associazione culturale che ho fondato 4 anni fa e che mi da tante soddisfazioni. Mi avvio dunque a parlarvi del mio viaggio in India, un Paese di grande fascino ed interesse.
Delhi. Giorno Uno.
Il frastuono del traffico che primeggia il centro della Vecchia Delhi ha la meglio sul sonno mentre provo a vincere il jet lag, nella mia camera di albergo al 5° piano. Assurdo, penso, fino alle 3.30 del mattino cosa avranno da strimpellare? E come mai tutta questa gente in giro? Finalmente tutto si calma e la stanchezza ha la meglio su di me.
Sono ben presto svegliata dalle prime luci del giorno che si insinuano tra le tende della camera.
Apro gli occhi, ho sonno. Penso: sono a Delhi, non c’è tempo da perdere!
Una doccia lava via la stanchezza e volo a far colazione (zuppa di fagioli e paste fritte come benvenuto, poteva andare peggio!), pronta per questa avventura.
L’albergatore mi ha consigliato di: non girare la città da sola di giorno, non uscire di sera, avere il corpo sempre ben coperto (e i 45° perenni non aiutano l’impresa), non bere acqua non imbottigliata, non prendere MAI un tuk-tuk da sola! Un risciò? Non ne parliamo!
Ho letto diversi blog prima di partire, sono pronta a tutto e prendo con me un autista che mi porterà a destra e manca durante la permanenza. Il suo nome, quello dell’autista, è per me impronunciabile e, soprattutto, impossibile da ricordare, così decido di chiamarlo Giovanni, gli si addice. E’ gentile, l’auto abbastanza pulita (considerando gli standard bassissimi indiani), per tutto il tragitto ci fa compagnia la statuetta di Shiva sul cruscotto che si muove ad ogni fosso (davvero molto frequenti) e la radio dai suoni magici. Trascorro più di un’ora e mezzo nel traffico per di raggiungere la prima meta, credo di aver conosciuto in questo modo l’India, protetta dal vetro di un sedile posteriore con vista sul mondo, come fossi in un sottomarino e l’esterno fosse inaccessibile. E’ così infatti, ciò che è fuori non è accessibile: se provassi a mettere piede fuori dall’auto sarei investita dalle dozzine di macchine che si affollano, da centinaia di persone che, seduti su motorini o Tuk-tuk, incitano il traffico a scorrere con incessanti clacson o, addirittura, dalle mucche che ingombrano la corsia. Qui non c’è una strada ben distinta, è solo uno spazio definito ai lati dalla presenza di bassi palazzi e case dai tetti abitati, e tutti procedono verso la stessa direzione. Hai presente la tipica fila creata dall’italiano medio in qualsiasi occasione? E’ ciò che gli indiani intendono per “traffico”. Non c’è un ordine, se spingi passi, se passi accompagni i Signori che usufruiscono del tuo mezzo di trasporto (anche se questo, a volte, è fatto dalle sole tue gambe), solo in questo momento avrai il tuo compenso e potrai finalmente “pregare” di accompagnare qualcun altro.
E’ da pazzi alloggiare nella Old Delhi, è ancora più folle alloggiare in uno dei quartieri poveri della Old Delhi. Eppure, se non l’avessi fatto non avrei mai riempito il mio cuore e la mia memoria di frangenti indelebili.
Per lo meno il tragitto mi dà modo di scoprire qualcosa che non trovo sui blog e convinco mal volentieri l’autista a scambiare due chiacchiere; Giovanni mi spiega che in India solo i drivers (chi trasporta turisti, dunque) hanno la patente, gli altri semplicemente guidano; che le mucche sono animali sacri e sono quindi liberi di andare dove vogliono, anche per strada; che gli uomini che vedo dormire nello spartitraffico probabilmente hanno bevuto troppo la sera prima come ricompensa della faticosa giornata di lavoro o, forse, sono semplicemente stanchi morti. Mentre inondo Giovanni di domande che spesso lo mettono in difficoltà (più che altro per le mie esclamazioni di stupore che seguono i brevi racconti), un Tuk-tuk guidato da un ragazzo che porta con sé almeno 6 persone, ci urta tentando un sorpasso. Oddio, penso, questo comporterà un’inutile perdita di tempo, non ci voleva proprio! I due alla guida si scambiano un gesto, Giovanni mette a folle e tira il freno a mano, prende uno straccio malconcio e scende dall’auto; guarda con attenzione il danno, per fortuna è solo una “strisciata”, lo pulisce con molta calma sputandoci su, torna alla guida. Sono scioccata, tutto qui? E l’assicurazione? Non sa nemmeno cosa sia, <<che strano modo che esiste da voi>> è la sua risposta quando gli spiego cosa sarebbe successo in un caso simile in Italia.
Alla fine del viaggio mi renderò conto che se ci fossimo fermati a far denuncia per ogni urto ricevuto o dato, non ci saremmo mossi nemmeno di un metro.
Il racconto di Veronica continua tra qualche giorno!