Negli anni belli dell’infanzia la mia fantasia galoppava sulle polverose orme di cow boy e pellerossa. Leggevo di tutto, dai fumetti ai romanzi di Salgari, London, Wallace, Grey, purché ci fossero di mezzo winchester, colt, archi, frecce, tomahawk, visi pallidi e indiani.
Le mie preferenze andavano però ad un giornaletto, formato striscia che costava 15 lire, testi e disegni di Bonelli e Galeppini che narravano le avventure di Tex e dei suoi pards, sullo sfondo di panorami che andavano ad imprimersi a fuoco in un luogo privilegiato della mia mente.
Ignoravo completamente che quei luoghi avessero un nome, quella che in seguito avrei saputo essere Monument Valley avrebbe potuto essere un qualsiasi luogo del Far West e, sotto sotto, se pure fosse anche stato solo il parto della fantasia del disegnatore lo avrei volutamente ignorato mentre andavo dicendomi che un giorno o l’altro i profili di quelle guglie li avrei visti da vicino.
Finalmente adesso, in età ormai matura, riesco a realizzare il mio sogno infantile. Quasi fatico a crederlo, è solo quando il carrello dell’aereo lascia il contatto con la pista di Malpensa che realizzo fino in fondo che, si, davvero mi sto avvicinando al regno di Aquila della notte, di Tiger Jack, di Piccolo falco e di Capelli d’argento, il mio personaggio preferito, quel bonario, inguaribile brontolone con la tendenza ad arrabbiarsi quando veniva chiamato nonnetto, chissà, forse una premonizione sul mio avvenire.
Scalo a Londra, accidenti siamo a Heathrow, luogo immagine per lo smarrimento bagagli, speriamo bene. Poi il lungo, per me troppo lungo e claustrofobico balzo aldilà dell’Atlantico fin sulle coste del Pacifico ed ecco Los Angeles. Le operazioni burocratiche per l’ingresso negli States sono lunghe e laboriose, il Departement of Homeland Security è particolarmente solerte nel suo compito.
Al visitatore viene innanzitutto consegnato un cartoncino verde con un lungo elenco di caselline da barrare la più divertente delle quali risulta essere quella con cui si chiede se fra gli scopi della venuta in USA vi sia compreso anche il terrorismo!!!! E che a nessuno venga in mente di fare lo spiritoso barrando la relativa casella, gli arcigni poliziotti che ti squadrano da capo a piedi con aria truce hanno tutta l’aria di essere ben felici di spezzarti tutte le ossicine, appena gli venga offerta la possibilità.
Seguono fotografia e rilevazione impronte digitali, dimostrazione di essere in possesso del biglietto di ritorno, di possedere sufficienti mezzi economici a garantire il periodo di permanenza ecc. ecc. ecc. Il tutto senza che in nessuna parte del mondo siano sollevate obiezioni in merito. Sarebbe interessante vedere come reagirebbero tanti effimeri garanti delle altrui libertà se analoghi provvedimenti fossero adottati in Italia.
Servendoci di un minibus raggiungiamo l’Hotel anticipatamente prenotato dall’Italia onde garantirci un arrivo soft. Un pò rincoglionito dall’effetto jet-lag riesco a fatica ad assemblare la gran quantità di parole che mi vengono riversate addosso da una receptionist nera come un tizzone e dal fisico e grinta da lottatore di Sumo, che si trova in evidente difficoltà con il mio nome registrato dopo essere stato frullato con il mixer e quella non si raccapezza fra il doppio nome ed il cognome.
Sistemate le cose in camera dove tutto è grande (i letti, la vasca con un bulbo doccia che pare un disco volante, il televisore e così via) andiamo ad una prima presa di contatto con la città degli angeli, incarnazione del sogno americano, caotica, presuntuosa, autocelebrativa.
Case in maggioranza piuttosto basse che rivelano la paura di terremoti contrastano con i pochi grattacieli che guadati dal basso sembrano non finire mai. Basta però attraversare due boulevard che ci si trova in piena downtown e la musica cambia, eccome! Case malandate, popolazione prevalentemente ispanica con facce dall’espressione di chi è meglio non averci a che fare, negozi con le merci più disparate in creativo accostamento, vetrine dove fanno bella (?!?!?) mostra abiti dai colori e fogge degne del peggiore degli incubi, generi alimentari traboccanti su marciapiedi sudici, musiche afro e jamaicane, homeless che emanano odori avvertibili anche da chi sia affetto da raffreddore.
Non trovando di meglio per cena scegliamo un Mc Donald piccolo piccolo dalle parti della Broadway e rischiamo di rimanere appiccicati al pavimento come le mosche sulla carta moschicida. All’uscita si è ormai fatto buio ed è scattato il coprifuoco, in giro praticamente non è rimasto nessuno, se non figuri dal poco rassicurante piglio ed aspetto.
Insomma il primo impatto non è esaltante, ci viene rimandata l’immagine di una città da dimenticare, sporca, formata da un disordinato insieme notevolmente diverso fra le varie componenti che danno l’impressione di un voluto distacco e, se non fosse per le dimensioni, decisamente insignificante.
Los Angeles Km. 0
Prima colazione in un bar dove, scopertici italiani, veniamo apostrofati con un improbabile capaccinou and co-nettou yes? Vada per il cornetto ma come bevanda preferisco il caffè, così mi ritrovo in mano una specie di piscina della Barbie, fatta di polistirolo e per giunta chiusa da coperchio, dove il liquido non si raffredda nemmeno a piangere.
Decifrando a fatica la caratteristica parlata yankee che ti sembra provenire da cavità orali ostruite da una grossa patata ci rendiamo conto dell’impossibilità di servirci di mezzi pubblici per visitare in un solo giorno una città composta da 80 nuclei urbani sparsi su una superficie di 1200 Km. quadrati e per giunta con un sistema di metropolitana del tutto inadeguato e, apparentemente, con gli altri mezzi pubblici in numero del tutto insufficiente e con orari lasciati al libero arbitrio del conducente.
Assoldiamo un taxista, pattuendo una quota forfettaria, che ci porti in giro per vedere almeno l’irrinunciabile ed è subito Hollywood. La famosa scritta bianca che risalta sul pendio della collina, Hollywood Boulevard dalle altissime palme, Walk of Fame con le stelle nominative e le impronte degli attori famosi.
Beverly Hills con Sunset Boulevard e le celebrate ville che, pur se mai ho avuto l’opportunità di essere ospite della famosa (e per alcuni famigerata) magione di Arcore, per le nostre contrade se ne incontrano molte di pari prestigio ed non di rado assai più belle. Rodeo Drive, l’ambientazione di Pretty woman, con lussuosi negozi, paradiso di uno shopping per noi molto conveniente visto l’attuale cambio € – $.
E’ a questo punto che il nostro scarrozzatore ci lascia a Santa Monica dicendo che il tour dei 100 dollari pattuiti è terminato, inoltre, a suo dire, questo è il miglior luogo possibile per gustare le bellezze del luogo e, con sguardo d’intesa mi confida essere questa la zona maggiormente frequentata dai gay!! Beh, e allora?
Gironzolando si incontra di tutto, tipi da spiaggia con telo spugna e salvagente, personaggi curiosi in cerca di proseliti per improbabili credo religiosi, azzimati businessmen, ragazzi ospiti di pantaloni grossi tre volte il necessario, anziane signore dai capelli con i colori più assurdi, abiti ed accessori delle griffes più prestigiose, miserabili che si portano al seguito tutto il loro mondo con un carrello da supermercato, i più diversi tratti somatici, bianchi, neri, olivastri, gialli, così cosà, insomma un intero campionario di umanità fortemente scollato fra i componenti, con notevoli differenze economiche e sociali, si ha la sensazione di vivere in film e romanzi diversi.
Andiamo a pranzo in un discreto localino dove uno sculettante cameriere ci accompagna ad un tavolo all’aperto ed è qui (forse no, scordavo il tassista) che inizia la serie di strage di cuori che collezionerò da qui alla fine del viaggio. Peccato solo che siano stati tutti cuori maschili!!!!! Conosciuta la nostra nazionalità il vezzoso negretto mi abbraccia e mi bacia (fortunatamente limitandosi alle guance) dicendo I love Itaglia and so much itagliani. Al momento del saluti mi lancia un languido Ciao bello, ma lo sconto mica me lo ha fatto, accidenti a lui.
Scendiamo verso l’oceano, il lungomare è congestionato di jogger, rollerblader, skate boarder, bici di ogni forma, monopattini ed un intero campionario di fanatici della forma fisica ad ogni costo. Le onde del Pacifico si infrangono sulla spiaggia sterminata di sabbia dorata con palme altissime ma, a dire il vero, un tantino rachitiche.
Ambientazione da Baywatch alla rinomatissima Muscle Beach, ma sulle altane nessuna ben pettoruta Pamela Anderson, solo annoiati ragazzoni che, non fosse per la pelle bianca ed i capelli biondi, ti sembrerebbero imitazioni dell’Incredibile Hulk e tanti, tanti poliziotti di pattuglia su quad, bici e cavalli.
L’acqua dell’oceano ipotizziamo non sia quel granché, visto lo scarso numero di persone in ammollo. Sul molo di legno detto Pier, sono installate infinite attrazioni acchiappaturisti fra le quali si aggira un numero tale di personaggi taglia XXXL che persino uno della mia stazza ha la piacevole sensazione di sentirsi magrolino.
Proseguiamo lungo la folcloristica passeggiata a mare sino a Venice caratterizzata dal suo aspetto bohemien ed è ormai il tramonto quando cerchiamo un taxi per tornare alla nostra oasi d’aria condizionata. Il conducente, di evidente origine indiana (dell’India) puzza d’aglio più d’una terrina di bagna càuda; per tutta la durata del tragitto alterna telefonate al cellulare, armeggi ai navigatori satellitari giusto perché ne ha solo due, uno fisso e l’altro portatile, ciononostante ho l’impressione che si perda almeno un paio di volte, ogni tanto poi prende qualche appunto sul palmare. D’accordo che con il cambio automatico la mano destra servirà ben poco ma…….
Los Ageles / Bullhead City – Km. 490
Andiamo a prendere possesso del mezzo precedentemente prenotato a mezzo Internet. Espletate le formalità del caso, con aggiunta del nominativo di un secondo conducente ed ampliata la polizza assicurativa rendendola, per scaramanzia, full-optional, raggiungiamo la corsia indicataci nel parcheggio e troviamo lo Chevrolet assegnatoci con le chiavi inserite nella toppa della portiera.
Neppure l’ombra di un addetto che ci spieghi il funzionamento dei vari marchingegni. Uno spazzino, che in mancanza della scritta peone in fronte, esibisce uno sdrucito sombrero di paglia a certificazione DOC, preso da compassione mi spiega in un misto di simil inglese, messicano e chissà cosa d’altro quel poco che sa, raccomandandosi bene di non toccare altro. L’inizio è davvero incoraggiante e mi tuffo in una rete autostradale di dimensioni e complessità da leggenda.
Per fortuna la condotta di guida dei driver stars and stripes si rivela di una correttezza esemplare, se si intende cambiare corsia basta alzare la freccia che subito chi segue frena, persino i camionisti, il che è tutto dire, altroché strombazzate, corna e dito medio teso!
Il primo impatto è superato, posso ora concedermi qualche sguardo intorno, finalmente capisco il significato di quel termine corsia carpool che mi tormentava sin dall’acquisto del satellitare, sono le corsie riservate alle auto che trasportano più di un passeggero.
Abbastanza agevolmente riattraversiamo tutta l’immensità della metropoli californiana ed eccoci inghiottiti dal Deserto del Mojave, un altopiano immenso, cosparso di bacini salati, dove si trova la base aerea militare usata per l’atterraggio degli shuttle al ritorno dalle missioni spaziali.
Guidare qui non costituisce alcun problema se non l’osservanza stretta del limite di 65 miglia orarie, davvero poche per questi rettilinei senza fine, senza neppure il timore di sbagliare direzione, basta seguire l’asfalto, le altre strade sono bianche, d’un bianco che più bianco non si può. Carcasse d’auto abbandonate, sotto i cespugli si vedono le tane degli animali del deserto che vive come nei migliori documentari di divulgazione scientifica.
Nella pianura senza confini si alza una nuvoletta di polvere, sarà forse Beep Beep che corre verso l’agguato tesogli dal perfido Willy Coyote?
Al limitare del Joshua Tree National Park, zona un tempo abitata da tribù Shoshone poi decimate da epidemie di vaiolo portate dai colonizzatori bianchi, raggiungiamo la prima delle mete preventivate, Yucca Valley. Una manciata di basse case dello stesso colore del terreno più o meno allineate dal bizzarro estro della casualità lungo un rettilineo infinito bruciato dal sole, pomposamente definito Grand Avenue. A lato della carreggiata fa sfoggio di se un cartello che annuncia l’esistenza di una sala cinematografica, una sala bowling ed una scuola, che cuccagna!
E’ in questo luogo, situato fra i 1000 e 2000 metri di quota, che prende il nome dalle tante piante di yucca, verosimilmente unica forma di vita vegetale presente ai tempi delle ondate migratorie, che abita una famiglia di parenti dei nostri ormai abituali complici nel condividere progetti di viaggio. Abbastanza sorprendentemente il GPS riconosce la località e ci porta davanti alla sede del giornale locale dov’è ad attenderci la signora Maria che presumiamo essere personaggio di rilievo, essendo l’unica ad occupare un ufficio ad esclusivo uso personale.
Intanto ci andiamo chiedendo quale cadenza d’uscita potrà mai avere un giornale in un luogo simile e quale accadimento potrà avere dignità di pubblicazione in queste lande desolate, oltre allo sciogliersi in acqua di una nuvola che potrà essere paragonata al miracolo della liquefazione del sangue di San Gennaro.
La casa dei nostri squisiti anfitrioni si raggiunge abbandonando la striscia d’asfalto per imboccare quella che potrebbe sembrare una via traversa ma che appare più realisticamente come il luogo dove è stata inventata la polvere. Inerpicandoci fra bassi rilievi color ocra, punteggiati dagli onnipresenti alberi di yucca, oltre ai quali non ci riesce di azzardare altro che la vita di serpenti e scorpioni, raggiungiamo il culmine di un’altura dove, in perfetta solitudine sorge la bella casa della famiglia Selva (nomen omen).
Nei progetti futuri di miglioria sono previste una piscina ad un muro di cinta adatto a garantire la privacy della famiglia, cosa che neppure la più sfrenata fantasia potrebbe concepire visto che i “vicini” più vicini stanno a più di 500 metri!!!!
Il tempo corre veloce e per chi, come noi, ha appena iniziato il viaggio è l’ora dei saluti. Veniamo omaggiati di un capace contenitore termico colmo di bevande e ghiaccio che, ci dicono non senza un’abbastanza evidente intonazione ironica, risulterà indispensabile per il tipo di itinerario che intendiamo percorrere e per di più in questa stagione.
Cieli tersi e piane di sabbia d’aspra bellezza, luccicanti distese ricoperte da una screpolata crosta salata ci accompagnano a Bullhead City che in nessun altro modo può proporsi se non come luogo per passarci la notte visto che è ormai tardi, oppure vantarsi (si fa per dire) d’essere la città più calda degli USA dove, in estate, la temperatura non scende mai sotto i 49 gradi:
Solo in caso si sia intenzionati a lasciare qualcosa in più che spiccioli in una moltitudine di slot machines o tavoli da gioco potrà risultare interessante la città gemella di Laughlin, una Las Vegas di serie B sulla riva opposta del fiume Colorado che, come una rasoiata, taglia in due il territorio
Bullhead City / Williams – Km. 346
Facciamo un pò di spesa e le abitudini sono sconvolte, una confezione di tovagliolini di carta potrebbe bastare per alcuni mesi, 5000 sono davvero tanti, un sacchetto di cubetti di ghiaccio è certamente utile però quello che ci viene venduto è alto come un bambino che già vada alla scuola materna, le cui classi potrebbero benissimo fare tutte quante merenda con il sacchetto di wafer che acquistiamo, forse sarebbe stato meglio venire in carovana e non in sole quattro persone.
Percorriamo un tratto della mitica Route 66, la strada lunga 2347 miglia usata per le migrazioni verso Ovest, la strada di Tod e Buzz e della loro Corvette, la strada immortalata da Steinbeck e cantata dai Rolling Stones.
Si risale l’Altopiano del Colorado, ogni tanto qualche cosa che somiglia ad un’abitazione, casa mobile o prefabbricato che sia, interrompe l’uniformità del panorama, sembra di stare sul set di Independence Day. Chilometri di nulla, penso con terrore se uno si trovasse a fare i conti con un guasto meccanico o, più semplicemente, senza carburante. E’ per questo che ad ogni stazione di servizio rabbocchiamo il serbatoio e poco importa se ne abbiamo ancora! In nessun altro luogo il melius abundare quam deficere risulta più appropriato.
Siamo nel cuore del territorio degli Hopi, discendenti degli antichi Anasazi, il popolo che si estinse in una sola notte perché, secondo la leggenda, rapiti dagli alieni ma molto più verosimilmente migrati a causa di carestie o sotto la spinta di incursioni Navajo ed Apaches. Ci avviciniamo ad una delle maggiori meraviglie naturali del mondo, il Grand Canyon, ed è veramente Grand, tanto Grand che in nessun modo risulta possibile descriverlo.
Non esistono termini ne supermegagrandangoli che possano renderne l’idea di maestosità, dirò solamente che al visitatore sembrerà di essere Ettore il muscoloso bulldog dei cartoni animati, quando la mascella gli casca a terra dallo stupore. La cosa più stupefacente sta nel fatto che nulla lascia presupporre cosa si presenterà agli occhi se non quando ci si affaccia ad uno dei tanti punti d’osservazione naturali.
Dalla piatta uniformità dell’altopiano lo sguardo, di botto, precipita verso il Colorado River in un tripudio di colori, guglie, stratificazioni. Una visione esaltante, non si riesce a profferire parola, ogni termine pare inadeguato per questo squarcio della crosta terrestre largo 16, profondo 1,5 e lungo 365 km.
Scartata l’idea di scendere i ripidi sentieri che portano al fondo per il poco tempo ed il sorvolo in elicottero che ci appare troppo asettico, ci spostiamo da un view point all’altro come falene attirate dalla luce. Ci sentiamo piccoli ed insignificanti al cospetto di questo luogo che l’opera della Natura ha creato in circa sei milioni di anni, ma ben felici di esserci stati.
A 50 miglia, circa un’ora di percorso, ci fermiamo a Williams per la notte. La cittadina compare poco per volta in fondo al rettilineo, è qui che la parola Main Street trova la più esauriente delle spiegazioni con le sue case allineate e la stazione ferroviaria che sembra la copia perfetta di quella di C’era una volta il West.
Sarà l’atmosfera, sarà perché andiamo ad incocciare la prima vera steak house, fatto si è che ci ritroviamo davanti ad una mega t-bone steak tenera come il burro, semiaffogata in una salsa al tabasco e sepolta sotto un montagna di “french fries” quelle patatine fritte che, se siete amanti del genere, vi sembrerà di essere arrivati in paradiso.
Williams / Kayenta – Km. 365
Si corre lungo il Colorado Plateau, rettilinei di cui non si vede la fine, terre più rosse di quelle dei campi da tennis. Ogni stazione di servizio ha un sistema operativo che la differenzia dalle altre e questo non facilita certo il compito dovendo ogni volta chiedere lumi e facendoci passare per impediti. In compenso tutte quante sono accomunate dalla particolarità di richiedere il pagamento anticipato e non di rado viene trattenuta una tot cifra che vi sarà restituita se sarete stati onesti nel prelevare la giusta quantità di carburante.
All’improvviso ci imbattiamo nel cartello che annuncia il Navajo National Monument. Nella parete del Tsegi Canyon sono intatte le abitazioni rupestri degli antichi Puebloan, il centro visitatori meravigliosamente a strapiombo sul canyon è gestito da nativi Navajo particolarmente cortesi e prodighi di informazioni anche verso chi, come me, ha tendenza a diventare assillante quando una cosa lo interessa e quasi pretende di avere risposta al fuoco di fila di domande cui sottopone il malcapitato interlocutore.
Ma che ci volete fare, mi sono sempre stati simpatici gli indiani, anche quando film e letteratura varia me li dipingevano come quelli cattivi, mi sono sempre ribellato all’idea che un buon indiano è un indiano morto e non me ne si chieda la ragione; sarà una di quelle sensazioni che si avvertono a pelle senza un motivo plausibile, sarà perché gira e rigira la vita ed il carattere mi hanno sempre fatto collocare dalla parte di quelli che alla fine perdono, ma è così e basta.
Chilometri di nulla, solo qualche bancarella dove i nativi (in maggioranza donne) vendono pregevoli prodotti d’artigianato. Ecco ora apparire la città di Kayenta, qui come altrove, non ci si faccia illudere dalle dimensioni segnate sulla carta stradale, in una nazione dove si trova si e no una casa ogni due/trecento chilometri, anche una manciata di casupole capitate li quasi per caso, viene segnata come una metropoli. Questa è la base di partenza per la visita alla Monument Valley, il mio sogno sta prendendo corpo, la sudorazione si fa più copiosa e non è solo questione di temperatura!
Come un bambino davanti al giocattolo tanto desiderato non ci penso nemmeno a leggere le istruzioni, ignoro il Visitor Center e via, via di corsa lungo la byway I-163, la più bella strada che abbia mai calpestato. Si ha la sensazione di entrare nel ventre della valle, mesas e butte mi corrono incontro, lo spettacolo lascia senza respiro. Per altri queste visioni potrebbero rappresentare null’altro che bei disegni sul tappeto del mondo, a me fan venire voglia di dire che quando morirò sarà proprio qui che vorrò essere sepolto.
Sulla sinistra, sperduta nell’immensità, si nota una presenza umana, una minuscola comunità Navajo con cavalli e vecchi fuoristrada si propone come guida alla scoperta della valle. Contrariamente a testimonianze altrui trovo queste genti assai dignitose, profondamente attaccate alla loro terra che considerano luogo sacro, orgogliose di mostrarne le bellezze al visitatore interessato.
Il giro pattuito dovrebbe avere la durata di tre ore ma Jack e Louise, le guide che ci accompagnano alla scoperta di luoghi interdetti ai mezzi privati, fanno durare ben più a lungo l’escursione con la loro grande disponibilità nel fermarsi ogni volta glie lo si chieda, illustrando i punti maggiormente interessanti, senza dimenticare preziosi consigli quali il badare a dove si mettano i piedi quando ci inoltriamo nel bush onde evitare spiacevoli incontri con i serpenti a sonagli
Qui la fantasia trova la sua pista di decollo verso indimenticabili sensazioni, nemmeno i tremendi sobbalzi del trabiccolo a motore che ti fanno schizzare le tonsille dalle orecchie e le nuvole di terra rossa che si è costretti ad inghiottire hanno il potere di distogliere lo sguardo da quelle torri rosse d’ossido di ferro che madre natura coadiuvata dall’acqua e dal vento ha scolpito nel corso dei millenni. Il coinvolgimento emotivo è totale, The Mittens e Merrick Butte, Elephant Butte, Three Sisters, John Ford’s Point, Camel Butte, The Hub, Totem Pole, Yei Bi Chei, Sand Springs, Artist’s Point, North Window, The Thumb e quel giovane Navajo seduto sulla roccia che suona il flauto nella luce dorata del tramonto rimarranno per sempre nei miei occhi, nella mia mente e soprattutto nel mio cuore.
Torniamo verso Kayenta, riemergo dalle mie fantasticherie e realizzo che se per un qualsiasi scherzo dovessero dirmi che il mio soggiorno negli States deve terminare in questo momento non me ne potrebbe fregare di meno, quel che volevo l’ho visto, ci sono stato, l’ho toccato.
Qui tutto è gestito dai nativi, persino l’ora non è quella legale osservata nel rimanente dello Stato, ciò non toglie che sia comunque l’ora di cena, gli occhi sono pieni di immagini indimenticabili ma lo stomaco è desolatamente vuoto e reclama i suoi diritti. Un’isolata costruzione in legno che sembra emergere dalla più classica iconografia western e l’insegna inchiodata al muro attirano la nostra attenzione.
Il locale è quanto di più autentico si possa immaginare, bancone e tavoli rustici, alle pareti fotografie che ritraggono fieri rappresentanti del popolo Navajo, ritagli di giornali ingialliti dal tempo, vecchi fucili, lampade dalla lunga storia e polverosi tappeti. Unica concessione alla modernità l’energia elettrica, che permette la produzione di ghiaccio in quantità industriali ed il funzionamento dell’immancabile climatizzatore azionato a manetta.
Siamo gli unici avventori oltre ad un vecchio indiano incartapecorito, seminascosto sotto un consunto Stetson, che alterna cucchiaiate di fagioli a lunghe sorsate da una fumante scodella. La giovane che serve al tavolo ci consiglia new york steak, o k, ma per bere dovremo accontentarci di uno di quei beveroni gassati e con tanto ghiaccio, apparentemente così graditi da queste parti, in quanto in tutta la Navajo Nation è illegale servire alcool.
Come ci si era raccomandati, la bistecca sarà pure stata cotta solamente sulla griglia, ciononostante non è sfuggita ad un abbondante cospargimento di una non meglio identificata salsa giallognola, le immancabili patatine sono fritte con una sorta di pastella che le rende irresistibili e, certo, non può mancare un’abbondante schizzata di ketchup. Le schifezze che si mangiano negli States sono davvero uniche e non ce le lasciamo certo sfuggire, vuol dire che con il fegato, colesterolo e trigliceridi faremo i conti al ritorno a casa.
Mentre pago il conto, chiedo il nome alla sorridente indianina che ci ha serviti e…..non ci posso credere, si chiama Lilyth, il nome della moglie di Tex, beh, non è quindi possibile rinunciare ad una foto che la ragazza accetta di buon grado.
Kayenta / Page – Km. 240
Prima della partenza ci rechiamo in centro per un prudente rifornimento di carburante, all’interno del Burger King poco lontano, è allestito una mini museo dedicato ai Navajo che, nel corso della seconda guerra mondiale, prestarono servizio quali radiofonisti in uno speciale reparto dei Marines.
Usando il Navajo code talkers, cifrario basato sul linguaggio non scritto e di estrema complessità per sintassi e qualità tonali, non permisero ai giapponesi di decifrare i messaggi inviati dai comandi, contribuendo al successo di numerose operazioni fondamentali per gli esiti del conflitto.
Riprendiamo il nostro andare, i sensi sono sconvolti, cespugli di saggina portati dal caldo vento evocano visioni cinematografiche, per quante miglia abbiamo ormai percorso non finisce di stupire l’inimmaginabile quantità di nulla, microinsediamenti umani di una sola precaria abitazione, non un orto, non un frutteto, non una parvenza di attività lavorativa, ma di cosa vivranno queste genti?
Una breve sosta per sgranchire le gambe con la scusa di una foto, improvvisa un’apparizione che solo il fatto di esser in quattro a vedere la stessa cosa ci convince essere vera. In direzione opposta viene un biker dalla lunga chioma grigia svolazzante fuori da un incredibile casco cromato, pantaloni e giubbino di pelle senza maniche con straripante borchiatura e…..sul sedile posteriore della sua Harley Davidson un orso di peluche con tanto di casco, occhialoni e bandana stelle e strisce al collo.
L’imponente diga Glen Canyon Dam annuncia Lake Powell, l’immenso lago artificiale creato dai fiumi Colorado, Escalante e San Juan che attraversa la riserva indiana per ben 186 miglia fra i canyon di Utah e Arizona. Il rosso delle ripide pareti di arenaria contrasta pittorescamente con l’intenso blu dell’acqua ma l’orrida, immensa colata di cemento di Wahweap Marina, che consente l’alaggio di barche di ogni forma e dimensione e la massiccia presenza di famigliole in vacanza sconsigliano la programmata sosta.
Presso la stazione di servizio, dove per l’ennesima volta facciamo la figura dei provenienti dal bricco, chiediamo informazioni sulla zona circostante, una cortesissima commessa insolitamente magra vista l’origine amerindia, risponde sorprendentemente alle nostre domande in un correttissimo francese. Ancor più di Rainbow Bridge, ci viene consigliata la visita di Antelope Canyon.
Il luogo, scoperto solamente nel 1931 da una giovane ragazza navajo che portava le pecore al pascolo, ci viene descritto come qualcosa di irrinunciabile e la cosa risulterà assolutamente vera.
Raggiungiamo Page, piccola realtà urbana al centro dell’immenso comprensorio naturalistico dove, come di consueto, ogni attività è gestita dai nativi. L’insolitamente scorbutico comportamento del personale del Visitor Center lo attribuiamo alla consistente presenza di turisti yankee.
Non ricordo chi disse che le ferite guariscono ma le cicatrici restano, però costui era sicuramente un uomo saggio. Non credo si sia spento il ricordo di una delle più vergognose pagine della storia quando i visi pallidi furono autori dello sterminio e della seguente deportazione forzata dei nativi amerindi nelle riserve dal clima inospitale e dagli improduttivi terreni.
La conferma ci viene data dall’assoluta casualità che, a bordo del camioncino fuoristrada, unico mezzo con cui è possibile accedere al canyon, farà ritrovare otto italiani sui dieci occupanti ed ecco che guida ed autista si comporteranno con l’abituale cortesia e disponibilità.
Antelope Canyon risulterà per noi una sorpresa ancor più affascinante in quanto non programmata. Sprofondando sino alle caviglie in un soffice manto di sabbia rossa ci si addentra in una strettoia d’aspetto arcano, i raggi solari penetrano a stento fra le alte pareti levigate ed ondulate dal vento creando visioni surreali.
Le stupefacenti forme prendono colorazioni che vanno dal nero delle zone più recondite al rosa della sommità della mesa, passando attraverso tutta la gamma dei rossi e degli arancioni..
All’interno dell’affascinante spaccatura la sabbia, che in abbondanza penetra nelle scarpe, risulta gradevolmente fresca contrariamente a quella rovente dell’esterno, verrebbe voglia di camminare a piedi nudi ma la guida sconsiglia la cosa in quanto la bassa temperatura del terreno attira all’interno del canyon grossi ragni velenosi.
Page / Springdale- Km. 203
Ancora fantastici territori desertici, oltre la striscia dell’asfalto larghe banchine sterrate delimitate da chilometri di filo spinato. Ogni tanto, a bordo strada, qualche cassetta per le lettere del classico tipo a tunnel d’alluminio, che l’iconografia classica ci ha tante volte mostrato, ma di abitazioni proprio non se ne parla. A volte si vede un arco in legno sormontato dalla scritta che riporta il nome del ranch, ma di abitazioni manco una, presumiamo che chissà dove ci sarà la casa nella prateria.
Entriamo nello Utah, lo stato dei Mormoni, ma di appartenenti a questa setta religiosa non se ne scorge traccia, letteratura e cinematografia ci ha sempre presentato genti che a tutt’oggi vivono ai margini dell’ evolversi dei tempi, che vestono abiti vecchi come Noè (se mai ancora fosse al mondo), che non fanno uso delle moderne tecnologie e così via, in occasione dei pochi centri abitati vediamo invece automobili giapponesi, antenne paraboliche ed abbigliamento più che normale.
Si sale lungo il Kaiparowits Plateau ed il paesaggio diventa più verdeggiante, superata Big Water alcuni tepee, le caratteristiche tende a cono dei pellerossa attirano l’attenzione; per visitarli si paga, ma anche questo è un modo per sostenere l’economia locale, come pure l’acquisto di pregevoli monili in turchese ed argento.
Le tondeggianti forme scure che intravediamo in lontananza non sono cumuli di terra, avvicinandoci si notano essere in movimento, sono bisonti! Facciamo così la conoscenza di sua maestà tatanka il re della prateria sacro alle popolazioni native che per secoli ha fornito loro ogni genere necessario alla sopravvivenza.
Una vecchia miniera nei pressi di Kanab ci offre impronte di dinosauri e pietre fosforescenti e lo Zion N.P. un furioso temporale con grandine che rovina la visita ma, tutto sommato non sembra poi un grave danno, a parte le altissime rocce levigate che fanno da quinta a prati verdi, che dal nostro arrivo in Usa sono una vera rarità, questo parco ci appare come il meno interessante.
Superata Glendale riteniamo sia l’ora della sosta, la steak house che ci accoglie sembra essere un luogo dove il tempo si è fermato, la bassa costruzione di precario aspetto è sperduta nell’immensità della prateria, le maniglie alle porte sono di legno, i tavoli addossati alle pareti hanno le panche a due posti per lato, dalle finestre si intravede un corral dove sono rinchiusi i cavalli, il gestore esibisce un paio di baffi bianchi grandi come ali di struzzo, il lungo bancone lucido sembra attendere lo scorrere dei bicchieri di whisky, mancano solo la scritta Saloon, le ballerine-prostitute e la sputacchiera (fortunatamente) poi saremmo pronti per sostenere una parte in Balla coi lupi.
I cibi che ci vengono serviti sono piacevoli e, visti i costi davvero modici, ci concediamo persino un calice di vino, difficilmente reperibile altrove e, per di più, a prezzi proibitivi
Springdale / Springdale – Km 104
Il sacchetto di frutta fresca regalatoci dal baffuto cow boy che ci ha ospitati per la notte serve egregiamente per la colazione, con le temperature correnti da queste parti la frutta risulta assai più gradevole che non i pantagruelici breakfast a base eggs and bacon, pancake con sciroppo d’acero o burro d’arachide, pemmican, formaggi, affettati e tutta una serie di cosi multicolori che hanno tanto l’aspetto di croccantini per gatti con i quali gli americani sono soliti ingozzarsi.
Dopo l’attraversamento del fantastico scenario di rocce dalle stupende colorazioni che vanno dal rosa al rosso acceso punteggiato dal verde dei pini del Red Canyon, poco a poco ci appaiono gli incredibili scenari del Bryce Canyon N.P. Ci addentriamo nella pineta dalla quale emergono enormi anfiteatri con ammassi di guglie e torrioni modellati dagli elementi naturali nel corso di milioni di anni.
Le formazioni assomigliano tanto ai pinnacoli che i bambini costruiscono sulla spiaggia lasciando filtrare la sabbia bagnata fra le dita. Oltre alle forme affascinano i colori dei monoliti di calcare ed arenaria che variano a seconda dell’esposizione e dell’ora.
Lungo i margini del plateau sono molti i sentieri che scendono verso il fondo del canyon ma la ripidità, l’elevata temperatura e la rarefazione dell’aria dei circa 3000 metri di quota ci consigliano un più comodo spostarci da uno all’altro dei numerosi view point dove risulta difficile stabilire quale fra tutti sia il più spettacolare, ovunque la visione è mozzafiato. Il pranzo al sacco che consumiamo al cospetto del maestoso Natural Bridge trova la compagnia dei numerosi scoiattoli che popolano la zona.
E’ ormai sera quando, dovendo percorrere a ritroso una parte del tragitto decidiamo di ripetere la sosta nello stesso luogo della sera precedente che, se pur popolato da un’agguerrita colonia di zanzare ha lasciato il piacevole ricordo della suggestione del luogo e della cortesia del gestore.
Springdale / Las Vegas – Km. 390
Si scende gradatamente ma costantemente; lungo il percorso sono numerose le corsie di fuga per i giganteschi trucks nell’eventualità di mancato funzionamento dei freni causa surriscaldamento ed anche noi un pensierino al nostro sistema frenante lo facciamo considerando l’impossibilità di sfruttare il freno-motore come si usa abitualmente alla guida di mezzi con cambio manuale.
Il deserto ci inghiotte nuovamente, la temperatura si fa rovente, nell’aria resa tremula ci appare quella sorta di grande luna park che risponde al nome di Las Vegas, una cosa che più americanata di così non è possibile immaginare, quasi un miraggio, un’invenzione aliena. Ai due lati dello Strip, la via principale lunga una dozzina di chilometri, si allineano senza soluzione di continuità, gli incredibili casinò (forse sarebbe opportuno eliminare l’accento) impossibili da raccontare, la tour Eiffel, le statue romane, la sfinge, il ponte di Rialto, la statua della libertà, le ville del lago di Como ed altro ancora, ma assolutamente da non perdere le fontane musicali del Bellagio ed il Desert Passage del Planet Hollywood, un galattico centro commerciale che sembra non poter trovare confini.
L’ambientazione orientaleggiante è resa ancor più curiosa dal finto cielo la cui intensità d’illuminazione, soleggiata, nuvolosa o stellata è regolata secondo le reali condizioni esterne ed, infine, viene persino ricreata l’atmosfera del temporale con tanto di tuoni, fulmini e pioggia (acqua vera) .
E’ in questo mondo dominato dallo scampanellio di migliaia di slot machines che, per la prima volta in tanti anni di viaggi, mi lascio traviare da un piatto di spaghetti al di fuori degli italici confini e devo confessare che non erano neppure così male. Il locale dove mangiamo non ha licenza di vendita alcoolici, basta però recarsi allo shop di fronte dov’è possibile acquistare la birra ed è qui che la locale quasi maniacale osservanza di leggi e disposizioni raggiunge l’apice o meglio l’assurdo.
Prima di vendermi le due lattine la commessa mi chiede l’età. Ora magari i miei annetti me li porterò anche benino però penso che anche Polifemo dopo la visita di Ulisse si sarebbe accorto che i 21 anni li ho passati da un pezzo.
Anche negli USA non si sa mai dove acquistare i francobolli, invariabilmente assenti dove si sono comperate le cartoline. In uno degli innumerevoli stores mi rivolgo all’anziano commesso con un scuse me sir che ritengo educato e nulla più e quello mi prende la mano accarezzandola dicendo che sono molto gentile ma purtroppo lui non è in grado di aiutarmi. Ecco là che ho colpito ancora!!!!!
Uscire dalle case da gioco equivale ad un pugno nello stomaco è come avere un asciugacapelli acceso che ti soffia addosso; negli interni la temperatura media si aggira sui 16/18 gradi, fuori si raggiungono facilmente i 50 qualsiasi sia l’ora del giorno o della notte. Gli infiniti ed enormi condizionatori riversano all’esterno una quantità spaventosa d’aria calda, passeggiare diventa un supplizio, un improvviso quanto inimmaginabile temporale porta la pioggia che……….incredibile, non tocca terra, le gocce evaporano prima!!!
Las Vegas / Ridgecrest – Km. 493
Ancora frastornati dalle visioni dell’incredibile, immenso bordello riprendiamo la via del deserto. Sperdute nella vastità si notano alcune installazioni con grandi radar in funzione, ne deduciamo un impiego militare, nessun incrocio è pattugliato e nessun segnale che possa confermare l’ipotesi ma preferiamo non approfondire.
Il traffico come di consueto è pressoché nullo, incrociamo solamente qualche gigantesco truck ed un paio di Greyhound. gli autobus interurbani, contraddistinti dal famoso levriero d’argento. che garantiscono i collegamenti fra le località non servite da ferrovia.
La vegetazione diventa sempre più rada, ci stiamo avvicinando ad uno dei luoghi più desolati ed inadatti alla vita che si possano immaginare. La Death Valley si merita appieno il suo appellativo; attraversare questa landa vuol dire capire cosa significhi la parola deserto e non è difficile immaginare per quante carovane di pionieri questa sia stata la tragica tappa finale della loro Gold Rush, la corsa all’oro scatenatesi nel XVIII° secolo.
La striscia d’asfalto che attraversa la sconfinata vastità di nulla sembra voler inghiottire le poche presenze umane, provvidenziali serbatoi d’acqua sono segnalati da vistosi cartelli, pur se a notevoli distanza l’uno dall’altro e l’acqua che contengono non sia potabile, possono costituire un vitale soccorso a chi resti malauguratamente con il radiatore in secca.
Sarà comunque opportuno ricordare che il deserto non perdona le imprudenze e, pur se oggi chi attraversa la Valle della Morte non è più costretto a bordo di carri rompiossa a trazione animale di cui, in punti discosti dalla strada, ancora si vedono alcune tracce infossate, si dovrà usare accortezza nel non forzare eccessivamente i motori e non abusare dell’impianto di condizionamento del mezzo che sviluppando aria calda per produrre il fresco potrebbe elevare eccessivamente la temperatura dell’acqua del radiatore con disastrose conseguenze.
Il panorama è d’aspetto alieno, nessun deserto presenta un così diversificato insieme di visioni naturali, piana infinita, alte montagne, canyons, dune di sabbia. L’eventualità di smarrirsi non appare poi così remota, fortunatamente per il turista gli americani sono molto attenti nella gestione dei parchi nazionali ed i punti d’interesse sono accuratamente segnalati.
Mentre salgo l’erta che porta al punto panoramico di Zabriskie Point, telecamera e macchina fotografica mi scottano le mani al punto che quasi rischio di lasciarle cadere, ma la vista risulta mozzafiato quanto quella che si ha al Dante’s View. Avventurarsi nel Golden Canyon significa sentirsi novelli Luke Skywalker, il protagonista di Guerre stellari che vive sul pianeta Tatooine, ma la temperatura è tale che percorse poche centinaia di metri abbiamo la netta sensazione che la “Forza” non sarà con noi e ce ne torniamo buoni, buoni.
Artist’s Drive concentra in se tutte le curve del viaggio ed è da questo budello fra le rocce che si aprono di volta in volta stupefacenti esempi di miraggio, la superficie salata di Badwater riflette i raggi solari ed il bacino, situato a 86 metri sotto il livello del mare, sembra davvero contenere acqua.
Infine Fournace Creek; dire che qui fa caldo sarebbe come dire che sul Titanic c’era un rubinetto che perdeva. Appeso ad un albero notiamo un grosso termometro, la lancetta segna 138 gradi Farenheit, ma sono 59 dei nostri Celsius! Siamo sicuri che non sia finto? Lo chiediamo alla cassiera del centro visitatori che ci assicura invece del perfetto funzionamento.
Come avverte un vistoso cartello questo è territorio dei Timbisha Shoshone etnia che, fra altri generi d’artigianato, risulta particolarmente abile nella realizzazione delle pregiate bambole Kachina e figuriamoci se mia moglie può lasciarsi sfuggire una simile occasione.
Ci lasciamo alle spalle l’immensa criptodepressione lunga 255 Km e larga 40 in media con un malcelato senso di sollievo, l’angosciante sensazione di poter rimare in panne in questo universo fantasma ci ha accompagnati per tutto il tragitto.
Attraversando la Indian Wells Valley, la vegetazione ricompare; fra i Joshua trees delle dimensioni davvero notevoli si possono incontrare esemplari di cani della prateria, gli animaletti dal verso simile al latrato di un cane ma dall’aspetto molto più assomigliante ad un criceto. Improvvisamente il tempo si guasta e, incredibile, solo a noi riesce di far piovere in questi posti dove le precipitazioni medie del periodo sono vicine allo zero. Vuoi vedere che ci fanno un monumento commemorativo?
La strada, seguendo l’andamento del terreno, è movimentata da accentuati dossi, dietro uno di questi si cela l’insidia di un flesh flood, le improvvise inondazioni causate dallo scivolamento dell’acqua piovana sui bordi d’argilla più alti del piano stradale. L’ondata provocata dal nostro tuffo nella zona allagata travalica la cappotta, fortunatamente non perdo il controllo della direzione e ne usciamo indenni, trasformati in un grosso parallelepipedo di fango grigiastro.
Al nostro arrivo a Ridgecrest ci sentiamo in obbligo di una ripulitura almeno sommaria del mezzo; scovato un lavaggio self service non perdiamo occasione per dimostrare, se mai ce ne fosse ulteriore bisogno, quanto siamo imbranati con le apparecchiature automatiche made in Usa. Dobbiamo ricorrere all’aiuto di un giovane messicano intento all’accurato lavaggio di quella che sembra la realizzazione del sogno della sua vita, una datatissima Cadillac dalla cui carrozzeria volano via grossi brandelli di vernice ad ogni passaggio del getto d’acqua.
Ridgecrest / Three Rivers – Km. 349
Ancora territori dove la presenza umana risulta assolutamente marginale, lontano nella prateria per la prima volta scorgiamo un convoglio ferroviario adibito a trasporto merci e la sua lunghezza ci sconvolge, per rendere l’idea di cosa sia basterà citare le quattro motrici in testa a tirare e le quattro in coda a spingere, ora si capisce l’esiguo impiego di mezzi per il trasporto su gomma, pensiamo a quanto sarebbe utile un analogo sistema di movimentazione delle merci in Italia contrariamente all’assalto di prepotenti TIR cui sono sottoposte le nostre autostrade. I vasti frutteti della San Joaquim Valley introducono alla Sierra Nevada ed alla Sequoia National Park quella che potremmo definire la casa dei giganti, un luogo sorprendentemente sfuggito al rullo compressore del turismo di massa. La temperatura scende a livelli umani e possiamo permetterci il lusso di spegnere il condizionatore e godere della fresca aria che entra dai finestrini.
Il primo impatto con questo parco, che fu il territorio dei popoli Monache e Paiute, lascia un poco interdetti; prima colline ricoperte di erba secca, poi si passa dai cespugli di rovi a piccole querce. Dopo un bel pò di strada tortuosa si arriva ai circa 2000 metri fra splendidi paesaggi di cime granitiche e profondi canyons con abeti rossi e bianchi e finalmente loro, i giganti vegetali, alcuni dei quali hanno un’età stimata di 2500/3000 anni, accidenti manco l’asino e il bue del presepe sono così vecchi.
All’ingresso del parco, vistosi cartelli indicano le norme di comportamento in caso d’incontro con orsi e puma; ora, capisco l’invito a tenere sotto controllo cibi e bevande ed il consiglio di evitare lo scontro fisico (sic), ma mi piacerebbe davvero conoscere chi potrebbe avrebbe il becco di rimanere immobile urlando a squarciagola sul muso del sicuramente poco amichevole animale.
Scovato un bel parcheggio ombroso ci concediamo una piacevole passeggiata tranquilla ed indisturbata lungo il Trial of a hundred giants; gli alberi sono davvero monumentali ma questo, sotto sotto ce lo aspettavamo, quello che più stupisce sono lo splendido colore dalle calde tonalità rossicce e l’impensata morbidezza della corteccia. Attenzione, le pigne sono di dimensione proporzionale agli alberi e quando cadono………….
E’ ormai sera quando, sperduta nel nulla, una tremolante insegna al neon ci segnala, nei pressi di Three Rivers, l’esistenza del Black Hawk Inn, una struttura che sembra uscita da una cartolina ingiallita dal tempo. Un vecchietto rinsecchito con una moglie cinese ancora discretamente giovane ed una figlia con qualche rotellina non ben fissata fra gli ingranaggi, sono i proprietari di una baracca dall’aspetto tanto precario-pericolante da risultare persino divertente.
Alla nostra richiesta ci viene offerta ospitalità su una collinetta nascosta appena dietro, raggiungibile percorrendo un polveroso stradello da capre che costeggia una sorta d’accampamento dove, a bordo di una vetusta maxicaravan, vive una famiglia composta non si sa da quanti bambini ed altrettanti cani.
La cena che, per dovere, consumiamo nella semioscura sala da pranzo dalle pareti che presentano fessure da leggenda, rende indimenticabile la serata. La lista dei cibi che ci viene sottoposta presenta una notevole quantità di specialità, ma, una alla volta vengono escluse dalla scelta in quanto esaurite (mi piacerebbe sapere da chi visto che siamo gli unici avventori), alla fine cosa rimane? Pizza e spaghetti!!! Cosìcché pizza e spaghetti siano.
Per quanto riguarda le pizze, alla parete dietro il bancone sono inchiodate alcune teglie che rappresentano le diverse dimensioni di pizza, ne ordiniamo due di quelle da 10 $ ma la cinesina ce ne consiglia una da 13 $ tanto equivale alle due da 10, evviva l’onestà. Per gli spaghetti invece, con almeno mezza dozzina di o k urlati per superare il rumore da quadrimotore del ventilatore, ci conferma le due porzioni.
Come bevanda, visto che hanno birra, ci allarghiamo un tantino e ne ordiniamo una caraffa grande senza pensare alle abituali dimensioni made in USA; quando ci viene servita in tavola ci scappa da ridere ma, fedeli al motto piuttosto che s’avanza, crepa panza a fine serata riusciamo a veder il fondo della megabrocca.
Three Rivers / Coleville – Km. 353
Ridiscendendo a valle si rimane colpiti dal contrasto offerto dall’immenso patrimonio naturalistico appena lasciato alle spalle ed il surreale panorama offerto da una selva di generatori eolici dalle sibilanti pale. Ancora vaste aree coltivate esclusivamente a frutta e gli immancabili chilometri che attraversano il nulla prima di arrivare allo Yosemite National Park. Purtroppo ci capitiamo di sabato e, pur nella sua sterminata vastità, il parco si presenta affollato come Piazza San Pietro in occasione della Messa di Natale. Pur nell’osservanza delle severe norme che riservano il 95% della superficie alla Wilderness ogni spazio accessibile ed i vista point sono presi d’assalto dalle belle famigliole americane. Genitori, nonni ed una nutrita serie di figli, dotati di cesti da pic nic il cui contenuto potrebbe sfamare l’intera popolazione del Corno d’Africa si sono dati appuntamento qui, in compagnia delle decine di autobus dei turisti all inclusive.
Sarà questa la ragione, sarà perché di gusti raffinati, abituati come siamo ai paesaggi della nostra stupenda Valle d’Aosta, questo parco non ci ha particolarmente impressionato. Si deve tuttavia riconoscere che le spettacolari pareti granitiche di El Capitan ed Half Dome agognate dagli alpinisti di tutto il mondo, cascate e laghetti cristallini, il verde Merceded River che scorre al centro della valle e le lussureggianti pinete dove emergono sequoia gigantesche, che nulla hanno da invidiare alle colleghe del Sequoia N.P. vanno a formare un insieme che certo non lascia indifferenti.
Con il senno di poi ed il programma di viaggio da noi adattato di giorno in giorno avremmo potuto evitare uno dei due parchi riservando tempo, come già accaduto, per ampliare il raggio di visita.
Panorami da sogno valorizzati dalla luce di uno stupendo tramonto, che si sfuma in mille tonalità pastello, ci accompagnano lungo la Inyo N.F. costeggiando il vasto bacino del Mono Lake si attraversa il Tuolomne Meadows, un grande tappeto verde punteggiato di fiori dove pascolano le pecore di montagna bighorn, sino a raggiungere la sperduta Coleville al confine con il Nevada.
Coleville / Reno – Km. 215
Accompagnati dall’ululato del vento, il cammino riprende lungo le belle strade della Toiyabe N.F. in lontananza fanno da quinta le cime ancora innevate della Sierra Nevada, paesaggi incantevoli, natura incontaminata, animali allo stato brado; attraversare queste zone anticamente abitate dalla tribù dei pacifici Washoe significa scoprire quella parte di America che conserva le memorie del suo passato e capire quanto si è piccoli davanti all’infinito.
Si valicano passi di notevole quota sino ad arrivare sulle rive del Lago Tahoe, bellissimo lago alpino dalle acque color zaffiro circondato di montagne maestose. Ed è proprio la sua bellezza che, purtroppo, lo ha trasformato in una affollata località turistica caotica e per nulla invitante.
Una veloce consultazione alla cartina ci mette sotto gli occhi nomi leggendari quali Silver City e Gold Hill, il richiamo è irresistibile ed immediatamente volgiamo la prua in direzione nord-est su quella che ai tempi della corsa all’oro era la Bonanza Road ed oggi assai meno poeticamente la US Highway 50. Miniere d’oro e d’argento ormai abbandonate, isolate baracche semidiroccate che furono rifugio di tanti sogni, pochi realizzati e molti infranti ed ecco apparire Virginia City che fu una delle più importanti Boomtown nate dopo che qui fu scoperto un enorme giacimento d’argento.
Arrivare in questa cittadina è come fare un salto indietro nel tempo alla metà del 1800; due file di case dal più classico stile Vecchio West si affacciano sui marciapiedi di legno che corrono lungo la C Street, la via principale che è anche l’unica se si escludono i vicoli laterali.
La totalità degli esercizi commerciali è convertita all’attività turistica ma ha il pregio di aver conservato intatta la struttura originale ed è in questi locali che non resisto all’acquisto di un autentico Stetson ed a consumare un pasto in un vero Saloon.
Si seguono percorsi che un tempo furono battuti da cacciatori di pelli e corrieri del Pony Express fra colline coperte di pini, deserti di pietre e cespugli, vecchie cittadine minerarie e pow wow indiani finché non si raggiunge Reno, autodefinatsi La più grande piccola città al mondo.
A noi trasmette l’idea del contraltare dell’ambiente che la circonda, un città di plastica tutta tesa nel porsi come concorrente di Las Vegas, che vive sul gioco d’azzardo ed i matrimoni tutto compreso, confezionata per estorcere denaro a storditi personaggi che vagano da un casinò all’altro, ventiquattr’ore su ventiquattro, con il solo scopo apparente di seminare dollari fra slot machines, tavoli di blackjack e roulettes.
Reno / San Francisco – Km. 385
L’Intersate Highway 80 attraversa l’area situata a cavallo fra Sierra Nevada e le montagne del Nord California, le tracce di vasti incendi giustificano i numerosissimi cartelli che vietano l’uso di fiamme libere al di fuori dei luoghi consentiti ed invitano a segnalare ai Rangers qualsiasi sospetto.
Attraversando la grande Sacramento Valley si entra in una importante zona di coltivazione viticola, qui vengono prodotti i grandi vini californiani dal costo inavvicinabile e dal sentore liquoroso, ragioni per cui ci siamo costantemente tenuti lontano da essi.
Dopo tanti giorni di guida su strade tranquille, dove la preoccupazione maggiore consisteva nel non lasciarsi sfuggire le bellezze del panorama, l’impatto con il traffico della San Francisco Bay Area risulta non dico traumatico ma meritevole di attenzione. Il clima è assai fresco e ventoso tanto che non sono pochi e passanti che indossano indumenti e calzature che potrebbero apparire poco consone alla stagione ma non inappropriate alla temperatura.
Partiamo ad un iniziale giro perlustrativo della città, l’immagine che per prima colpisce la nostra attenzione è quella che più classica non potrebbe essere, dalla strade che sembrano montagne russe ecco apparire uno sferragliante cable car, il caratteristico tram a cremagliera con le vetture in legno che dalla downtown risalgono sino alla sommità della Nob Hill, non a caso soprannominata Snob Hill .
Poi una passeggiata fra i grattacieli ci porta alla pittoresca e sterminata Chinatown, per oggi può bastare e prenotiamo per l’indomani un’escursione in autobus attraverso i luoghi di maggior interesse.
San Francisco – Km 0
Prendiamo posto a bordo dell’autobus e, come è solita dire mia moglie, perdo una buona occasione per starmene zitto. I posti a sedere sono tutti occupati ma una coppia di tedeschi è rimasta in piedi; commento non certo urlando, comunque in modo che viene evidentemente udito, che i furbastri dell’agenzia hanno venduto biglietti in overbooking fidando magari sulle statistiche che danno un certo numero di rinunce fruttando un surplus di incasso.
La guida, nonché comproprietario dell’agenzia, è un italiano qui residente, ma da soli vent’anni quindi in grado di capire e parlare ancora perfettamente la nostra lingua. Piuttosto risentito si volta e mi dice che queste cose si fanno in Italia non qui. Beh, ormai è fatta e non mi rimane altro se non ribattere che questo lo dice lui visto che i due che sono rimasti senza posto non lo sono certo per opera dello Spirito Santo.
Iniziamo il tour che ci porta dapprima ad un punto panoramico con veduta sul simbolo della città, il rosso Golden Gate purtroppo inghiottito da una fitta cortina di nebbia che ne ostacola la veduta e ne rende un’immagine quasi surreale. Poi in rapida successione flash sui luoghi che cerchiamo di memorizzare per una più mirata visita di questa città che, quasi senza riuscire a darne giustificazione, ci ricorda la nostra vecchia Europa e ci stupisce con il suo eclettismo architettonico che riesce a coniugare stile vittoriano e forme d’avanguardia.
Una bella passeggiata è offerta dalla zona portuale detta Fisherman’s Wharf, forse il punto più frequentato della città, con un’infinità di ristoranti, negozi e bancarelle che vendono di tutto quanto un pò ed in particolare la rinomata frutta della California che non sfugge alla norma dell’elefantiasi di tutto quanto sia made in USA, si vedono fragole grosse come albicocche e mele come pompelmi.
Anche i leoni marini della numerosa colonia che staziona all’imboccatura del porto hanno dimensioni davvero ragguardevoli ed in non pochi casi si potrebbero confondere con i passanti di altrettanto generosi tonnellaggi
Il sole ha cacciato le nebbie, ne approfittiamo per una gita nella baia con uno dei battelli in partenza dal Pier 39 che ci porta sotto il Golden Gate dove la veduta è resa ancor più piacevole dagli sgargianti colori delle innumerevoli ali da Kitesurfing che sfrecciano all’intorno.
Al ritorno si compie l’intero periplo dell’isolotto deve si erge minacciosa la grigia mole di Alcatraz, che fu sinonimo di carcere di massima sicurezza. La posizione isolata, le gelide acque popolate di squali ben rendono l’idea di come non fosse neppure ipotizzabile l’idea di una fuga da un simile luogo.
Il percorso che riporta in centro ci mostra un intero campionario di tipi strani (ma, nel contesto, forse gli strani siamo noi). Si passa per Columbus Avenue e ci si sente a casa, è questa la via che attraversa Little Italy dove lampioni e pali elettrici sono fasciati di tricolore, le insegne di bar e ristoranti sembrano partire dal Monte Bianco, percorrere tutto l’Appennino ed approdare all’Etna. Questo angolo d’Italia conserva evocatrici atmosfere Beatnik, sembrano materializzarsi Kerouac, Ginsberg, Ferlinghetti, nomi che per un’intera generazione di ragazzi hanno rappresentato punto di riferimento del Summer Love del movimento Hippie.
San Francisco – Km 0
San Francisco pur essendo un’immensa area metropolitana di circa sette milioni di abitanti è la meta ideale per chi come noi ama girare a piedi. Non ci lasciamo così sfuggire l’occasione per osservare da vicino i luoghi simbolo della capitale finanziaria della costa occidentale. Andiamo alla ricerca del Financial District turrito di alti edifici, dove più alta è la concentrazione di istituti finanziari, studi professionali, immensi centri commerciali e sfavillanti megastore monomarca d’abbigliamento dove l’attuale valutazione della nostra moneta consente uno shopping assai favorevole. Chiedo indicazioni sulla direzione da prendere e qui colpisco ancora, o meglio sono nuovamente colpito; il distinto signore cui mi sono rivolto mi passa il braccio attorno alle spalle e, appoggiando la guancia contro la mia, mi indica il percorso da seguire. Vabbé dai, oggi si parte per tornare a casa.
Gian Luigi Ceva