Per quanti stanno trascorrendo un periodo di vacanza sulla costa adriatica delle Marche e in una giornata uggiosa lontano dalla spiaggia non sanno come far passare il tempo, proponiamo una serafica scorreria alla scoperta di alcuni gioielli culturali, architettonici e non solo, che sono le Abbazie disseminate lungo il corso dei fiumi Potenza e Chienti nella provincia di Macerata.
Sono per la maggior parte segni della Regola benedettina la cui diffusione nelle terre marchigiane è l’esatto inquadramento voluto dal Santo di Norcia il quale, dopo l’esaltazione della vita ascetica e monastica orientale, inserì la più pratica mentalità latina occidentale adattandola alla sua formula “ora et labora” conciliando la ricerca di Dio con l’impegno nel lavoro come presa di distanza dall’ozio a completamento della dignità umana.
Ed ecco sorgere le abbazie, come luoghi di preghiera ma anche di carità e di aiuto agli altri, in modo dapprima cronologicamente e geograficamente confuso spesso con scelta di posti di difficile raggiungimento (eremi) ma poi con scelte di luoghi più accessibili, meno impervi e più aperti alle necessità sociali, non solo ma anche al lavoro dei monaci stessi.
Sono così sorti nelle contrade marchigiane, in territori abitati, in un ambiente naturalmente dedicato al lavoro e alla vita pratica,gioielli di intensa spiritualità e insieme splendori di cultura. Percorrendo la strada provinciale che da Civitanova si inoltra all’interno fino ai Sibillini (la 485 per i tom tom) fatti pochi chilometri, a Montecosaro Scalo, si incontra la chiesa di S. Maria a piè di Chienti di fondazione benedettina intorno al VI secolo, centro di una grande abbazia andata distrutta ma di cui rimangono le murature principali e le absidi.
L’interno della chiesa impressiona per la situazione di penombra che invita alla meditazione; architettonicamente risente di influssi orientaleggianti: un deambulatorio è attraversato da monofore che immettono flebile luce mentre la navata centrale ha sette arcate e si distingue per piani sovrapposti di cui il superiore riservato agli ecclesiastici e l’inferiore per i comuni fedeli e l’abside è a emiciclo come un austero deambulatorio sovrastato da un affresco raffigurante il Cristo maestro. In questa abbazia potevano trovare sollievo i malati che venivano accolti.
Con una breve digressione a destra verso la collina si giunge a Montelupone nel cui territorio in riva al fiume Potenza sorge la basilica di S. Firmano di stampo bizantino-romanico, restaurata ma fondamentalmente conservante la sua struttura originale che presenta similitudini architettoniche con i modelli ravennati (S. Apollinare in Classe) dal momento che ci troviamo ai confini dell’Esarcato. La facciata a capanna secondo i canoni, contempla sopra la lunetta del portale un’aquila che artiglia un felino mentre all’interno si notano figure modellate sull’arte orientale che rappresentano il Cristo in croce, una Madonna con il Bambino in braccio e santi.
Internamente la chiesa è a tre navate con la mediana molto ampia sorretta da pilastri con volta a capriate; guardando il portale si può notare come le pareti laterali siano asimmetriche con larghezze diverse, anomalia che si riscontra rivolgendo lo sguardo alla scalinata in cui i gradini di sinistra sono più larghi che quelli di destra decentramento che conferma l’influenza dell’architettura bizantina. Nella parete della navata sinistra superiore un affresco attribuito a Giacomo da Recanati con la Vergine e santi.
La cripta, a cui si accede dalle navate laterali, in stile gotico lascia presumere fosse ricordo di una costruzione preesistente: le colonne hanno capitelli di ordine diverso dorico e corinzio. Sull’altare una teca con le reliquie di S. Firmano effigiato in una statua di terracotta policroma di Ambrogio Della Robbia e la tradizione vuole che i fedeli che passano sotto l’arco che sostiene l’altare possano essere liberati dal male di ossa.
L’edificio sulla destra della facciata di cui impedisce in parte la visibilità è quanto rimane del monastero.
Ridiscendendo verso valle, lo sguardo viene attratto da un lungo filare di cipressi, circa un chilometro, in fondo al quale si staglia il complesso della abbazia (denominazione postuma) di S. Claudio, dalla lunga e a volte incerta storia, resuscitata dopo restauri che l’hanno restituita all’antico splendore dopo anni di abbandoni durante i quali, specialmente la parte superiore e la torre di destra furono utilizzate come magazzino e silos.
Anticipata da un piccolo giardino con palme ed altre piante protette da una siepe di bosso, appare una costruzione dalle piacevoli linee architettoniche composta da due elementi sovrapposti, due chiese, affiancati da due torri cilindriche. Alla parte superiore , riservata ai vescovi e agli edifici ecclesiastici si accede da un portale decorato con elementi marmorei mentre nella parte inferiore l’ingresso è protetto da un arco marmoreo su un vestibolo.
Ambedue le chiese sono a pianta quadrata suddivisa da quattro piloni con tre absidi su cui poggiano archi a tutto sesto che sostengono volte a crociera con tre absidi sporgenti comuni mentre agli angoli anteriori le due torri sono compenetrate dai muri cosicchè la facciata, le torri e le fiancate formano un unico che si rafforza reciprocamente. I due affreschi votivi nella calotta dell’abside centrale raffigurano S. Claudio e Rocco patroni dei muratori e degli appestati.
La prossima meta del nostro viaggio è parte integrante di una riserva naturale a cui dà il nome: Abbadia di Fiastra ed è una fonte di storia e cultura che dimostra inequivocabilmente la lunga presenza e l’attività dei monaci cistercensi che la fondarono nel 1142, utilizzando a piene mani le rovine della vicina Urbis Salvia, e che tuttora vi operano provenienti dalla abbazia di Chiaravalle in Milano.
Il suo dominio si estese su larga zona dell’Italia centrale fino a rilevare le giurisdizioni delle altre abbazie: per circa tre secoli fu centro economico e culturale favorendo l’evolversi di tutta l’area. Tuttora in ottimo stato di conservazione, l’abbazia consente di potersi rendere conto di quali fossero le strutture architettoniche e l’esistenza di edifici monastici destinati alla vita comune dei monaci e dei conversi: refettori, cantine, chiostro, magazzini, dormitori, Sala del Capitolo (fulcro della guida della vita quotidiana della comunità).
La chiesa, di stile cistercense-lombardo, espressione della semplicità e della essenzialità, ha la facciata preceduta da un portico con portale in marmo e, nella parte alta, un grande rosone; a croce latina con tre navate e sotto il rosone dell’abside un pregevole affresco con suggestiva Crocifissione.
Notevole il neoclassico palazzo Giustiniani-Bandini, opera dell’Aleandri, sede della Fondazione che amministra sia la riserva naturale che l’abbazia con un bell’esempio di giardino all’inglese nel quale troneggia una imponente quercia da sughero.
Il territorio della riserva naturale ricade nella zona medio collinare della provincia tra la valle del Chienti e del Fiastra e conserva importanti elementi tipici dell’ambiente rurale marchigiano ormai in via di estinzione; è suddiviso in zone ambientali e la selva con la sua estensione rappresenta un esempio delle foreste che ricoprivano la fascia collinare, dove all’ombra di cerri, roverelle, farnie vivono ancora animali selvatici ( tassi, istrici, caprioli, donnole) mentre nel cielo volteggiano civette, sparvieri, l’allocco, upupe. Nella riserva sono a disposizione del visitatore aree per pic-nic, bar, camper service, pizzerie e ristoranti oltre che strutture ricettive.
Terminiamo il nostro viaggio con un gioiello colpevolmente semisconosciuto (non agli stranieri): l’Abbazia di Rambona, nel comune di Pollenza, che purtroppo dismissioni ecclesiastiche dell’800 hanno mutilato permettendo che dei privati costruissero la loro abitazione inglobando la navata e il sacello nord sotto il quale è ancora esistente, ma non visitabile, un ipogeo di età romana.
Della storia della abbazia ci dice un dittico in avorio (originale nei musei vaticani) in cui si legge che la regina longobarda Ageltrude ricostruì su un precedente insediamento questo cenobio in cui i benedettini operarono.
Sono visibili le tre absidi intatte con costoloni bicromatici e gli affreschi restaurati del presbiterio, aperto al culto, che si datano tra il XIII e il XVI secolo. Ma il vero tesoro è la cripta, dove dodici colonne tutte diverse abbellite da capitelli in arenaria colorati, sui quali la simbologia cristiana invita alla meditazione ma denuncia anche l’origine romanica dell’abbazia che può essere collocata nel tempo non prima del XII secolo. Nei pressi del complesso religioso, una curiosità non facilmente riscontrabile altrove: l’esistenza abbastanza conservata di una stazione di posta per colombi.
Per la auspicabile volgarizzazione di tanti gioielli ( il nostro…..petrolio) speriamo in un futuro intelligente.
Testo e foto di Giuseppe Lambertucci